Condividiamo l’articolo di Anna Maria Testa, esperta di comunicazione, apparso su Internazionale.it il 30 marzo 2020.
Specie in tempi difficili, dovremmo sforzarci di usare parole esatte e di chiamare le cose con il loro nome.
Le parole che scegliamo per nominare e descrivere i fenomeni possono aiutarci a capirli meglio. E quindi a governarli meglio. Quando però scegliamo parole imprecise o distorte, la comprensione rischia di essere fuorviata. E sono fuorviati i sentimenti, le decisioni e le azioni che ne conseguono.
Tra l’altro: sulla scelta delle parole che servono per descrivere le cose si gioca anche buona parte della propaganda politica contemporanea.
Per esempio, quando sceglie di chiamare “virus cinese” il Covid-19, Donald Trump non si limita a proporre un diverso nome per nominare la medesima cosa. Fa, per dirla con George Lakoff, una esplicita operazione di framing, di incorniciatura. Inquadra, cioè, il virus evidenziandone la provenienza, e quindi attribuendone la responsabilità. Del resto, ce lo ricorda il Guardian, Trump è piuttosto abituato a compiere operazioni di framing, e lo fa con (ehm…) un discreto successo.
Operazioni di incorniciatura
Ma non sono Donald Trump e il suo uso fallace del linguaggio il punto di questo articolo. Teniamoceli, a mente, però, come esempio di applicazione di un frame: una cornice che può cambiare radicalmente il senso di qualcosa, attribuendole una specifica qualità, o isolando ed esaltando una singola qualità fra molte.
Per descrivere e comprendere la realtà noi la semplifichiamo compiendo, non necessariamente in malafede, una quantità di operazioni di incorniciatura.
Lo facciamo ogni volta che definiamo un fenomeno alla luce di quella che ci sembra la sua caratteristica emergente.
Lo facciamo (in modo efficacissimo, e determinante in termini di comprensione e interpretazione) quando usiamo una metafora: una formula linguistica che condensa in pochissime parole un intero racconto, e che evoca immagini intense, cariche di pathos.
Dunque, una metafora può essere una cornice folgorante (anche questa è una metafora) e altamente memorabile.
Eccoci al punto. In un eccellente articolo uscito su Internazionale pochi giorni fa, Daniele Cassandro segnala che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”.
Cassandro segnala, citando Susan Sontang, che però “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate”. E conclude affermando che la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo perché “parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne”.
L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale
Lo psichiatra Luigi Cancrini ribadisce concetti analoghi in un’intervista a Repubblica: “La guerra è il tempo dell’odio. In guerra per sopravvivere si è costretti a uccidere l’altro”, dice. “Invece questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà”.
E il sociologo Fabrizio Battistelli, su Micromega, dopo aver meticolosamente elencato una quantità di metafore belliche usate sia da politici sia da esperti, sottolinea che “è sbagliato mettere sullo stesso piano due fenomeni – l’epidemia e la guerra – la cui essenza è diversa. Ciò emerge nelle due distinte azioni del contrasto e della prevenzione. Mentre nel contrasto epidemia e guerra hanno vari punti di contatto (giustamente l’ideatore del ventilatore multiplo ha parlato di ‘medicina di guerra’) l’azione di prevenzione è diversa e per molti versi opposta”.
L’automatismo che porta a impiegare metafore belliche a proposito del Covid-19 mi sembra particolarmente insidioso anche perché, in realtà, i termini “malattia”, “epidemia”, “infezione”, “virus”, “contagio” sono essi stessi impiegati come metafore potenti. Basti pensare all’uso esagerato del termine “virale” che in questi anni si è fatto a proposito di internet e dei social network. A quante volte si è parlato di “infezione mafiosa”. O di “epidemia di solitudine”.
E allora, perché diavolo sentiamo il bisogno di mascherare con una metafora una realtà che ha attributi così forti e drammatici da essere essi stessi usati come metafore? Perché mai sentiamo il bisogno di alterare una narrazione potente e inequivocabile incorniciandola con un’altra narrazione?
Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie
L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale.
Può darsi che derivi dal fatto che l’immaginario della guerra è profondamente radicato nell’inconscio collettivo. O può darsi che derivi dal fatto che oggi (di nuovo Battistelli) “le politiche strategico-militari concretizzano la dicotomia amico/nemico, teorizzata dal pensiero conservatore ma di fatto condivisa da tutti, come la quintessenza del ‘politico’”.
Conseguenza: si ragiona e si investe molto più secondo logiche nazionalistiche e di conflitto che secondo logiche universalistiche e per prevenire rischi globali.
Può darsi, insomma, che alla base di tutto ciò ci sia una logica ottusa e inadeguata, che sa leggere l’intera realtà solo in termini dicotomici e muscolari, e non è proprio capace né di ragionare, né di immaginare o progettare in termini di inclusione e di cura. Non ci riesce nemmeno adesso, quando inclusione, condivisione e cura sono l’unico imperativo possibile.
Di fatto, scrive Matteo Pascoletti su Valigia Blu, “il gergo militaresco e l’insistente visione bellica non aiutano ad affrontare l’emergenza da un punto di vista psicologico e cognitivo, e se non ci aiutano come individui di certo non ci aiutano come società”.
Pandemia. Pericolo globale. Tragedia collettiva. Difficile emergenza (come dice il presidente Mattarella). Tempesta che smaschera le nostre false sicurezze (come dice papa Bergoglio).
Ciò che riguarda il Covid-19 è tutto questo, ma non è una “guerra”.
Questa non è una guerra perché non c’è, in senso proprio, un “nemico”. Il virus non ci odia. Non sa neanche che esistiamo. In realtà, non sa niente né di noi, né di sé. È un’entità biologica parassita.
Non è una guerra e dunque è tremendo e inaccettabile che per “combatterla” muoiano medici e infermieri: non sono “soldati” da mandare in “battaglia”, pronti a compiere un “sacrificio”. Usare il frame della guerra per implicare, insieme all’eroismo, l’ineluttabilità del “sacrificio” è disonesto e indegno.
Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie.
Non è una guerra perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare. Prima cominciamo, meglio è.